L’urgenza di riproporre a teatro le pagine di Mario Tobino ci pare assai significativa, in un periodo storico dove la Parola poetica è così quotidianamente
perentoriamente mortificata dal linguaggio televisivo. L’imbarbarimento dei comportamenti e la volgarizzazione degli intenti di questa nostra ambigua e miseranda epoca da basso impero fa a pugni con gli alti ideali che mossero dapprima il suo approccio scientifico (intriso di così grande spessore umano), poi l’intero suo percorso letterario: dove la Poesia permea diremmo interamente ogni sua pagina.
Tobino è maestro nel tradurre i fremiti della sofferenza fisica e psicologica dei più infelici che curò ed amò, e il suo messaggio si imprime nel ricordo, turbando il sonno a distanza di anni. Forse l’arte è proprio questo: sapienza nella descrizione del dolore. Tobino si spinge in avanguardia ancora più in là, quasi scommettendo nientemeno che sulla cognizione del medesimo.
Non è semplice, il tema è anzi il più arduo. E drammatico, perché in Tobino l’arte non imita la vita, ma è la vita stessa: per dirla con Artaud, guarda caso qui un emblema perfetto, esatta quintessenza di Teatro e Follia. Le sue pagine sono di una bellezza pittorica, e accumulano al contempo una massa enorme di materiale formale, atmosferico, umorale. Gioco di contrasto e contrappunto, per dare voce ai più umili. Già di per sé una drammaturgia perfetta: a chi fa teatro, e musica, non resta che prendersi il lusso di dargli pienamente voce su un palcoscenico.
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L’Ufficio Stampa
Demetrio Brandi
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