Il prof.Carlo Vivaldi Forti, presidente dell’associazione Destra Domani, ci invia questo interessante articolo che volentieri pubblichiamo :

“Nel buon tempo antico, prima che la barbarie consumistica spazzasse via i legami elementari fra gli uomini e riducesse a brandelli la società intera, era saggia usanza, all’inizio di ogni nuovo anno, sospendere le consuete attività e formulare propositi per il futuro. Nel tentativo di mantenere questa sana tradizione, sono andato alla ricerca , nella biblioteca di famiglia , di qualche classico del pensiero oggi dimenticato . Mi sono così imbattuto nel celebre e provocatorio saggio di Alfredo Oriani Rivolta ideale, la cui rilettura potrebbe rivelarsi molto utile anche per gli uomini e specialmente per i politici dei nostri giorni.
Non è qui il caso di compiere una esegesi puntuale del testo. Basti, però, considerare questa semplice affermazione per comprenderne l’intero significato : La lotta dell’elemento individuale coll’elemento sociale costituisce la sostanza della storia: finché l’individuo non sia libero nello Stato, non lo sarà nella famiglia; l’emancipazione dal tiranno diventerà un’emancipazione dal padre, il riconoscimento di un diritto politico produrrà una ricognizione del diritto domestico . L’esigenza di un’armonia sociale che sostituisca il caos prodotto dall’egoismo cieco e dalla conseguente lotta di classe ( l’hobbesiana guerra di tutti contro tutti ) si trova ancor più chiaramente espressa nell’opera di Giovanni Gentile, pubblicata nel drammatico autunno del 1943 , Genesi e struttura della società , dedicata all’umanesimo del lavoro: Il lavoratore non è semplicemente lavoratore generico. Il lavoro dell’artista è diversissimo da quello dello spazzino e perfino da quello dell’ingegnere. Tanto è vero che spesso accade che l’uno non sia disposto a riconoscere il valore del lavoro degli altri, se non è esso produttivo di beni corrispondenti ai suoi bisogni. Il lavoro si differenzia, e il lavoratore lavorando nel suo genere viene ad appartenere a una categoria , la quale economicamente ha interessi peculiari, che sono diversi dagli interessi delle altre; e devono accordarsi con gli interessi di tutte le altre categorie, in guisa da costituire il sistema della società civile, che è materia dello Stato. La volontà individuale, a cui è congruente la volontà dello Stato, non è pertanto una volontà indiscriminata, ma una volontà differenziata in un sistema organico, in cui ogni individuo, volendo se stesso, vuole il sistema. Questo il concetto dello Stato moderno, che vuole essere lo Stato della libertà aderente alle effettive determinazioni del popolo, a cui si deve attribuire questa libertà.
Il grande filosofo liberale e idealista, in un certo periodo della sua vita credette, in totale buona fede, che il sistema corporativo fascista potesse rappresentare il primo passo di una evoluzione verso questa sintesi armonica tra unità e molteplicità, per la quale la libertà dell’individuo sarebbe venuta a coincidere naturalmente con la volontà collettiva espressa nello Stato. Poiché la storia non è fatta di se e di ma, è difficile supporre oggi a quale esito avrebbe condotto l’assetto corporativo ove fosse durato, e se davvero questo, come sperava Gentile, avrebbe schiuso le porte a quella più alta forma di convivenza in cui le vecchie contrapposizioni di classe avrebbero lasciato il posto ad una nuova identificazione fra interesse particolare e generale.
Peraltro, nessuna ideologia del Novecento, pur proclamando di perseguire questo scopo, lo ha mai davvero raggiunto. Ciò vale indistintamente per tutti i vincitori della seconda guerra mondiale , siano essi i capitalisti americani o i comunisti sovietici. Scrive in proposito il sociologo tedesco Kurt Schilling nel suo apprezzato saggio Geschichte der sozialen Ideen, pubblicato a Stoccarda nel 1957 ma ancora largamente attuale: Il compito che queste ideologie si pongono è la pratica integrazione politica delle masse nell’era industriale , sotto determinate parole d’ordine concernenti il potere e gli interessi. E ciò perché le vecchie forme statali non sono più in grado di assolvere questo compito. La loro debolezza si è manifestata, anzitutto, dopo la guerra mondiale, e ciò in egual misura presso i vinti e presso i vincitori. Ma non è la colpa della guerra vinta o perduta, come spesso si crede. La guerra ha fatto solamente palese quel che , a più o meno lunga scadenza , anche senza di essa sarebbe avvenuto: la modificazione delle forme di vita dell’uomo e , con essa, la modificazione del suo carattere e dei vincoli su cui poggia la convivenza umana.
L’autore centra così il vero problema dell’epoca moderna, che né le più spietate rivoluzioni e guerre, né le più feroci dittature sono riuscite a risolvere: restituire all’uomo la sua giusta collocazione nella società, sconvolta dall’industrialismo degli ultimi tre secoli, che ha distrutto gli equilibri tradizionali senza mai ricomporli in assetti più avanzati altrettanto validi. La conflittualità permanente che ne è seguita segna con una scia ininterrotta di sangue l’incapacità della politica di dar vita ad una nuova armonia sociale. La sfida che oggi si pone al pensiero politico, prima che alla politica attiva, è costruire una alternativa di governo della società, in grado di edificare un ordine coerente , come fondamento di forme di convivenza finalmente all’altezza dei tempi nuovi, quelli della tecnologia avanzata e della globalizzazione.
E’ mia convinzione che esista una sola, possibile strada per evitare il progressivo declino e in tempi più lunghi il tracollo della nostra civiltà: l’avvento di una società integralmente partecipativa. Nei precedenti capoversi ho ricordato come alcuni dei giganti della storia avessero già espresso a chiare lettere tale punto di vista, sebbene mancasse loro, inevitabilmente , l’approfondimento tecnico che noi oggi possediamo. A tal proposito , in un recente articolo, ho fatto cenno a uno degli approcci più avanzati d’ingegneria sociale che è la Sociocrazia olandese, sorta e maturata nel clima culturale nord-europeo e perciò stretta parente, pur avendola largamente superata , di quella Mitbestimmung , o codecisione , che a partire dall’ultimo dopoguerra si è rivelata uno dei pilastri dello straordinario miracolo economico della Germania. Se questo paese, malgrado la crisi, resta la maggiore potenza continentale, lo deve in larga misura proprio alla bassa conflittualità sociale che lo ha sempre caratterizzato. E non perché, come molti credono, in Germania si lavori più che in Italia, al contrario. Come numero di ore e di giorni lavorati, la Repubblica federale si colloca ad un livello assai più basso del nostro: per esempio, tutte le festività cattoliche da noi abolite nel 1976 dal governi Andreotti-Berlinguer , oltralpe esistono ancora, alle quali si aggiungono quelle protestanti e le ricorrenze nazionali. L’orario, come da noi, è di otto ore, ma la settimana corta è universalmente praticata, all’infuori delle categorie impegnate in quei servizi di pubblico interesse che non la consentono.
Ma allora, come si spiega che pur lavorando meno si produca molto di più? La risposta è semplice, anche se le teste vuote dei nostri politici, dei sedicenti economisti e dei tecnici loro asserviti mostrano di non comprenderla affatto: il principio di quantità, in cui essi credono al pari di tutti i piccoli burocrati privi di intelligenza creativa , vale ben poco a paragone di quello di qualità. Ciò che conta non è infatti quanto si lavora, ma come . Il benessere tedesco e nord-europeo dipende sicuramente da fattori storici e culturali di varia natura, ma la puntuale applicazione del metodo partecipativo alle primarie strutture produttive gioca un ruolo rilevantissimo.
Occorre tuttavia rilevare che la partecipazione di cui scrivono Oriani, Gentile e Schilling non si limita ad una serie di tecniche organizzative , per quanto intelligenti, ma si presenta come una autentica visione del mondo alternativa a quella attuale , per cui la folla solitaria della società avanzata deve essere integrata nello Stato fino a dirigerlo in prima persona. Tale esigenza nasce come risposta al palese fallimento , o per meglio dire superamento , della democrazia. Questa, infatti, si regge su due principi , quello maggioritario e quello rappresentativo, che seppur validi due secoli or sono in quanto rivendicazioni di libertà dall’assolutismo, ne hanno oggi determinato la crisi. La rappresentanza esercitata dai partiti ha indotto i poteri forti ad assicurarsi col denaro l’assoggettamento delle maggioranze da essi espresse : per questo, la rappresentanza politica della volontà popolare ha perduto di efficacia e addirittura di significato, tanto che assistiamo all’affermarsi di un nuovo feudalesimo su scala planetaria , incarnato dalle cosche malavitose dell’alta finanza.
Tale è il motivo per cui Gerard Endenburg, docente emerito dell’Università di Utrecht e ispiratore del modello sociocratico , definisce quest’ultimo come il terzo stadio nell’organizzazione sociale , dopo l’assolutismo e la democrazia. Esso si fonda sul concetto di partecipazione totale, applicata non solamente al mondo della produzione ma alla società intera, iniziando dalla famiglia per passare alla scuola, ai quartieri, ai comuni, alle regioni, allo Stato. Ci collochiamo perciò ad un livello molto più avanzato delle teorie partecipative fin qui conosciute, tanto che la sua applicazione comporterebbe l’avvento di un assetto sociale totalmente nuovo, che fatichiamo perfino a immaginare. D’altra parte, come rileva giustamente il professore citato , di fronte al crollo della democrazia e all’ingovernabilità del sistema che ad essa si richiama, esistono due sole possibilità teoriche: o una regressione verso l’assolutismo, sia pure nella versione moderna della dittatura, o un balzo in avanti verso una società che integri direttamente il cittadino nello Stato, ridimensionando il potere di quegli intermediari partitici divenuti ostaggio dei nuovi feudatari. Tertium non datur . Nel dramma di questa scelta occorre peraltro osservare che in una società, come la nostra, ad alta tecnologia, sarebbe praticamente impossibile , per chiunque, esercitare il governo senza consenso. Perciò, l’unica alternativa realistica al fallimento della democrazia non è limitare ulteriormente la sovranità popolare bensì estenderla a tutti , e ciò dà ragione agli ingegni illuminati che già un secolo fa predicevano lucidamente tali sviluppi”.

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