Il prof. Carlo Vivaldi Forti, presidente dell’associazione Italia Domani, ci invia questo interessante articolo che volentieri pubblichiamo :

La storia poi dirà chi avrà ragione, che per salvare un barbaro abissino vorrebbero affamare la nazione , iniziava così un canto patriottico del 1936 dedicato alle inique sanzioni. Tali versi, divenuti per molti anni oggetto di scherno e derisione, si rivelano oggi sempre più profetici. Non mi riferisco alle ormai desuete avventure coloniali, bensì alle teorie corporative e partecipative elaborate in forma diversa dal primo e dal secondo fascismo. Se all’epoca del regime le corporazioni rappresentarono poco più che associazioni di categoria con dirigenti nominati dall’alto , ben altro significato assunsero nel periodo della Repubblica Sociale Italiana.
La sconfitta ormai certa, che solamente la vana speranza dell’acquisizione di armi di distruzione di massa da parte della Germania sembrava capace di esorcizzare, aveva risvegliato nelle coscienze di molti fascisti, addormentate dai privilegi del potere, l’orgoglio e la freschezza della prima ora , quando i fasci di combattimento si ammantavano di spirito rivoluzionario. Sull’onda di questo stato d’animo nacque ,o per meglio dire risorse, una cultura volta al cambiamento radicale degli assetti istituzionali ed economici , a cui Giuseppe Parlato dedicò nel 2000 un saggio dal titolo La sinistra fascista ( il Mulino, Bologna). Non sembri paradossale tale definizione. Gli intellettuali e gli attivisti che si nutrivano di queste idee spostarono lo spirito rivoluzionario dal fronte interno a quello internazionale : la guerra contro le demoplutocrazie occidentali diveniva così l’inizio di una rivoluzione mondiale destinata a instaurare un nuovo ordine fondato sulla mistica del lavoro, nella tradizione corridoniana e gentiliana. Il nemico non si trovava più ad est, tanto che molti sindacalisti guardavano con crescente interesse alla Russia di Stalin, bensì ad ovest, da cui proveniva il complotto plutocratico – giudaico – massonico destinato a sottomettere l’intero pianeta ai propri interessi.
La lotta in corso acquistò in tal modo il doppio significato di rivoluzione interna e di guerra internazionale. Fino a non molti anni addietro la maggior parte degli storici, anche di quelli in buona fede, era convinta che le spinte di Salò verso il socialismo esprimessero soltanto l’estremo tentativo del regime di riconquistare le masse lavoratrici, insieme al desiderio di Mussolini di punire la borghesia industriale per la sua presunta comunanza d’interessi con i colleghi anglosassoni, o addirittura un ritorno del Duce ai vecchi amori di direttore dell’Avanti!. Oggi, invece, di fronte alla degenerazione tirannica del neocapitalismo finanziario costituitosi in cupola mafiosa globale, e al suo tentativo di sopprimere la sovranità dei popoli, si sta facendo strada una nuova convinzione, presso molti studiosi non necessariamente di destra, che porta dritto a un domanda inquietante: e se il fascismo dell’ultima ora avesse visto giusto, se avvicinandosi la fine di un’era si fosse manifestata la consapevolezza , o almeno il presentimento della catastrofe che sarebbe seguita alla sua scomparsa?
La rilettura della storia in questa dimensione ci obbliga a riconsiderare taluni aspetti della politica della RSI e a paragonarli con interventi più vicini a noi, oltretutto ad opera di ambienti politici decisamente diversi, spesso legati a tradizioni resistenziali e antifasciste. Giuseppe Parlato così commenta il pensiero del sindacalista Luigi Fontanelli ( G.Parlato, cit., p. 126):
“Da una parte un principio morale nuovo e gli interessi del popolo, dall’altra il vuoto morale e degli interessi concentrati in poche mani. Da una parte la verità e il lavoro, dall’altra la menzogna e il vano gioco. Da una parte la democrazia di nome, dove il capitalismo , attraverso le sue infinite propaggini, domina lo Stato, e dall’altra la democrazia di fatto, dove il capitale non è già più capitalismo e deve sottostare alla volontà dello Stato. Di qui la necessità di impostare la rivoluzione fascista in termini rivoluzionari, anzi di ‘rivoluzione continua’ “.
Il concetto qui espresso rinvia a un saggio da me pubblicato negli insospettabili anni Ottanta, nel quale, pur senza avere letto Fontanelli ed essendo di là da venire l’opera di Parlato, giungevo alle medesime conclusioni ( Carlo Vivaldi-Forti , Problemi di metodologia scientifica nella ricerca psicologica umanistica, Thule , Palermo1983 , p.58):
“Nel linguaggio delle scienze umane possiamo sostenere che il mutamento sociale continuo si configura come un adeguamento costante della realtà istituzionale alla sottostante realtà sociale in movimento. Quello, cioè, che normalmente avviene attraverso la rivoluzione, e quindi secondo un criterio di caotica discontinuità, si verifica qui secondo un criterio di continuità ordinata. A questo punto, però, ci rendiamo conto di avere praticamente introdotto il concetto di rivoluzione continua”.
Ma cos’è, questa rivoluzione continua, se non l’effetto della partecipazione diretta del popolo alle decisioni che lo riguardano? Le implicazioni istituzionali e costituzionali appaiono allora evidenti: l’autogoverno delle categorie produttive, che il corporativismo del ventennio fascista , degenerato purtroppo in burocratismo , aveva promesso ma non realizzato, diventa l’obiettivo primario della legislazione sociale del periodo repubblicano. Non soltanto i sindacalisti rivendicano l’elezione dei quadri dal basso, ma invocano il superamento sia pure graduale dello stesso rapporto di lavoro salariato, da sostituire con una remunerazione mista, rappresentata da un minimo garantito e da un’eccedenza derivante dai risultato economici dell’impresa. L’ipotesi di temperare il contratto d’impiego con quello di società non è nuova, ritrovandosi nella stessa dottrina sociale della Chiesa. Un altro noto sindacalista fascista, Tullio Cianetti, non si limita ad enunciare genericamente tale principio auspicandone l’applicazione, ma si spinge ad affermare , in un momento di grave crisi come quello degli anni Trenta, che “ cadono tutte le presunte leggi e i metodi consuetudinari che regolano l’impiego dei capitali, la produzione e lo stesso salario. Questo non può che trasformarsi in una quota di partecipazione, in un dividendo. Occorre formarlo gradualmente con dividendi, fino a sostituirlo definitivamente con un dividendo vero e proprio, derivato non dalle singole aziende, ma dalla produzione globale della nazione. Svincolatasi la produzione dall’arbitrio del capitale cadono tutte le premesse di fatto del sistema capitalistico, travolgendo la sovrastruttura ideologica che poggia su di esso. Il lavoro perde così la caratteristica di merce , il suo compenso non essendo più il salario , concepito e calcolato come mezzo per la conservazione materiale della classe operaia. Esso viene valutato e remunerato in rapporto alle sue capacità ed alla effettiva potenzialità dell’azienda nel panorama economico nazionale”( T. Cianetti, Rimunerazione corporativa , a cura del PNF , Roma 1940, p.57).
In un momento ancor più drammatico, il 13 gennaio 1944 il Consiglio dei Ministri della RSI vara il noto decreto legge sulla socializzazione dell’impresa, dal quale emerge chiaro l’intento di sottrarre il salario all’imposizione dei grandi monopoli, associando il dipendente alla gestione e alla proprietà dell’organizzazione in cui lavora. Gli utili residuali, dopo il pagamento dell’interesse spettante per legge al capitale, saranno devoluti ai salariati, in modo però che la proporzione fra la quota percepita a titolo di dividendo non oltrepassi il 30% di quella percepita a titolo di stipendio. Di particolare rilievo è poi la delibera di estendere la socializzazione alle imprese pubbliche , attribuendo a ciascun collaboratore un certo numero di titoli di credito emessi dall’ente medesimo. Ciò nell’intento di superare l’antinomia fra settore privato e pubblico, universalizzando la proprietà dei mezzi di produzione.
Il precipitare degli eventi bellici ostacolò la puntuale applicazione del decreto, ma la strada verso il cambiamento sociale era stata imboccata. Qualcosa di molto simile , incredibilmente, è riproposto nel 1968 dal presidente de Gaulle, capo storico della resistenza francese. Il 30 giugno invia una nota al Consiglio dei Ministri in cui chiede che venga istituita, nelle aziende, la partecipazione di tutti i collaboratori alla gestione e alla comproprietà del pacchetto azionario. L’intera teoria muove dalla necessità di sconfiggere l’alienazione dei salariati, costretti a vendere a un padrone le loro capacità intellettuali e fisiche. La differenza fra il concetto marxista e quello gollista d’alienazione consiste nel fatto che, secondo quest’ultimo, l’opera prestata a favore di un ente pubblico appare addirittura più alienante di quella svolta per una impresa privata. Nel mercato libero , infatti, la possibilità di limitare i danni derivanti dal rapporto con un padrone rimane assai più concreta ( maggiore libertà di scelta) che nell’economia interamente statizzata, ove i dipendenti sono costretti ad accettare le condizioni imposte da un unico datore di lavoro.
Gli economisti vicini a de Gaulle coniano addirittura un nuovo lessico economico. Il sistema classico di mercato è da loro definito oligocapitalismo ( i mezzi di produzione nelle mani di pochi) , mentre il socialismo reale è chiamato monocapitalsmo ( i mezzi di produzione in mano ad un solo soggetto). Essi considerano la partecipazione lo strumento per trasformare la società in un diverso modello pancapitalista ( i mezzi di produzione nelle mani di tutti).
Anche il resistente Charles de Gaulle , non diversamente da Benito Mussolini , mira all’estensione della proprietà a tutti coloro che partecipano al processo produttivo. Il fine ultimo di entrambi è il superamento della differenziazione fra settore pubblico e privato, oltre che della lotta di classe. Il manifestarsi di situazioni analoghe, anche a distanza di tempo e in diverse circostanze storiche , ci induce a riflettere sui corsi e i ricorsi di Vico. La partecipazione, massimo strumento di democrazia diretta, è oggi l’unica arma efficace contro la cupola mafiosa. Eccoci allora alla drammatica domanda: coloro che vilipendono Mussolini per aver difeso con le armi l’indipendenza nazionale dai poteri forti mondiali, possono effettivamente dimostrare che avesse tutti i torti? Se personaggi come de Gaulle o Edgardo Sogno, pur provenendo da culture politiche opposte, sono poi giunti a conclusioni analoghe, vorrà significare qualcosa? Ne tengano conto coloro che , da qualunque parte della barricata, si battono oggi contro la mafia globale! Il fascismo non potrà certo rinascere , ma un nuovo movimento di massa che recepisca quelle stesse esigenze si sta già rapidamente formando. Basta che esca dalle catacombe e scelga un leader degno di tal nome in grado di guidarlo!

Prof. Carlo Vivaldi Forti

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