Il prof.Carlo Vivaldi-Forti, presidente dell’associazione Italia Domani, ci invia questo interessante articolo dove la “partecipazione, sia a livello aziendale che di vertici istituzionali è vista sotto l’ottica della dottrina sociale della Chiesa e l’autore riporta fedelmente alcuni passi tratti da diverse encicliche famose. Buona lettura.

“Il pensiero politico e sociale contemporaneo è costantemente alla ricerca delle cause della disaffezione dei cittadini alle vicende della cosa pubblica. Questa si manifesta in una serie di comportamenti individuali e collettivi, il più diffuso dei quali è il sempre crescente assenteismo dalle urne. Sembra quasi che la discussione in comune dei problemi che riguardano tutti non interessi più a gran parte dell’elettorato. Tale fenomeno concerne l’intero Occidente, ma in Europa raggiunge quote drammatiche. Esso non è peraltro legato né al prevalere di certe ideologie rispetto ad altre, e neppure alle forme istituzionali degli Stati, siano essi monarchie, repubbliche parlamentari o presidenziali. Palesemente, vengono poste in discussione l’efficacia e la legittimità della rappresentanza popolare. Vale quindi la pena muovere da questo dato di fatto per condurre le nostre riflessioni.

Scrive Pier Luigi Zampetti, uno dei massimi studiosi della dottrina sociale cattolica , già docente alle Università di Trieste e Genova, e membro della Pontificia Accademia delle Scienze :

Abbiamo parlato dell’uomo che si realizza, che è il dominus dei propri atti ed è il dominus perché si è liberato dalla prigionia in cui era stato relegato. La concezione democratica è apparsa come liberatrice e non asservitrice dell’uomo, ma di quale democrazia stiamo parlando? Quella per cui gli uomini sono individui o quella per cui sono persone? In questo sta tutto il nodo della questione. La democrazia rappresentativa è la democrazia per cui gli uomini sono individui; quella partecipativa è la democrazia per cui gli uomini sonno persone. Di qui la differenza fondamentale . La democrazia rappresentativa si esaurisce nel momento elettorale e si fonda sulla delega del potere. La democrazia partecipativa non si esaurisce nel movimento elettorale, ma si completa nel concorso di tutti all’esercizio del potere. La democrazia rappresentativa è legata alla esistenza delle classi, la democrazia partecipativa esige il loro superamento” (1).

Il brano riportato costituisce un ottimo preludio alla dottrina sociale della Chiesa su tale argomento. Quest’ultima, classicamente, si riconosce nel pensiero aristotelico, come sviluppo della Patristica e della Scolastica. La concezione antropologica dello Stagirita si fonda sul concetto dell’uomo come zoon politikòn, o animale socievole per natura, che può realizzare le proprie potenzialità esclusivamente in stretta collaborazione con i suoi simili. Di qui la profonda distanza dalle visioni individualistiche della maggior parte dei pensatori moderni, fra i quali Machiavelli, Hobbes, Rousseau, che ritengono il Contratto sociale la base della cooperazione umana, patto volontariamente sottoscritto da ognuno, allo scopo di scongiurare la guerra di tutti contro tutti e rendere così possibile la convivenza. Questo è il principale solco che divide la filosofia politica cattolica da quella laica o laicista contemporanea: per la prima l’uomo è stato creato da Dio in vista della realizzazione di una futura comunità di santi, traguardo escatologico della storia; per la seconda, la natura umana è irrimediabilmente predatoria e anarchica ( homo homini lupus ) e soltanto la paura della sopravvivenza costringe l’individuo ad associarsi con il suo simile.

Per comprendere meglio le implicazioni di tale antinomia, ci sembra opportuno ricordare l’interessante differenziazione formulata dal sociologo tedesco Ferdinand Toennies fra Comunità (Gemeinschaft) e Società (Gesellschaft). In tal modo sintetizza Kurt Schilling questi due concetti:

Comunità è un qualunque corpo sociale, più o meno grande (matrimonio, famiglia, tribù, stirpe, popolo, Stato, federazione, Chiesa, setta, anche un’azienda o un’impresa), quando, e solamente quando, i vincoli reciproci fra i suoi membri sono così originari e saldi, che tutti quei contrasti che la vita porta con sé si svolgono sulla base di questo vincolo originario, ma questo vincolo non viene mai posto in discussione. Società è un corpo sociale i cui membri sono primariamente autonomi l’uno di fronte all’altro e liberi l’uno dall’altro, ma che successivamente, allo scopo di prolungarne la vita e in considerazione di singole mete determinate, raggiungibili e superabili nel tempo, stringono vincoli dei generi più diversi, da cui a prezzo del vantaggio dell’uno nasce anche per l’altro un vantaggio, e che perciò in linea di principio si possono sciogliere e sostituire quando i loro scopi sono raggiunti”(2).

L’intera filosofia politica cattolica, e quindi la dottrina sociale della Chiesa si riconosce nel concetto di Comunità, mentre quello di Società caratterizza le visioni individualiste e contrattualiste. Ciò trova indiscutibile conferma sia nelle Sacre Scritture che nei principali documenti del Magistero ecclesiastico. Il versetto 4 degli Atti degli Apostoli descrive la primitiva comunità cristiana di Gerusalemme in termini che taluni commentatori superficiali hanno definito comunista, mentre in realtà si tratta di una variante della Gemeinschaft del Toennies, edificata su basi puramente spirituali:

La moltitudine dei credenti era un cuore solo e un’anima sola; né alcuno c’era che considerasse suo quel che possedeva, ma avevano tutto in comune. Non c’era alcun indigente tra essi, perché tutti quelli che possedevano poderi o case, li vendevano e portavano il ricavato delle cose vendute mettendolo ai piedi degli apostoli; poi si distribuiva a ciascuno secondo il bisogno”.

La caritas, ossia l’amore per il prossimo predicato da Gesù, è alla base di questo ordinamento, che prefigura non certo il collettivismo marxista, ma l’obbligo morale del soccorso ai diseredati, formulato con chiarezza nell’insegnamento dei Pontefici. Esso appare del tutto coerente con la visione organicista della convivenza umana, contrapposta a quella edonista ed egocentrica. Le fondamenta etiche della dottrina sociale cattolica, che ritroveremo in ogni successiva applicazione, sono contenute nel principio comunitario della Chiesa quale Corpo Mistico di Cristo. Pio XII gli dedica una intera enciclica, la Mystici corporis, di cui vale la pena meditare qualche passaggio:

Se la Chiesa è un corpo,è necessario che esso sia uno e indiviso. Ma il corpo richiede anche moltitudine di membri, i quali siano talmente tra loro connessi da aiutarsi a vicenda. E come nel nostro mortale organismo, quando un membro soffre gli altri si risentono del suo dolore e vengono in suo aiuto, così nella Chiesa i singoli membri non vivono ciascuno per sé , ma porgono anche aiuto agli altri, offrendosi scambievolmente collaborazione, sia per mutuo conforto sia per un semplice maggiore sviluppo di tutto il corpo. Inoltre, come nella natura delle cose il corpo non è costituito da una qualsiasi congerie di membra, ma deve essere fornito di organi, ossia di membra che non abbiano tutte il medesimo compito, ma siano debitamente coordinate; così la Chiesa per questo specialmente deve chiamarsi corpo, perché risulta da una netta disposizione e coerente unione di membra fra loro diverse. Né altrimenti l’apostolo Paolo descrive la Chiesa quando dice: <come in un sol corpo abbiamo molte membra, e non tutte le membra hanno la stessa azione, così siamo molti un sol corpo in Cristo e membra gli uni degli altri >. Né tuttavia bisogna credere che Cristo Corpo, essendo posto in luogo così sublime, non voglia l’aiuto del corpo stesso. Si deve infatti asserire di questo Corpo mistico ciò che Paolo afferma del composto umano : < il capo non può dire ai piedi, voi non mi siete necessari>” (3).

Il richiamo a queste definizioni paoline, che ricordano l’apologo di Menenio Agrippa delle braccia e dello stomaco all’epoca della secessione della plebe romana sul Monte Sacro, evoca la base non soltanto spirituale, ma anche politica della sociologia cattolica. Sia chiaro, l’intento primario della Chiesa non è perseguire il pur giusto ordinamento della città terrena, bensì indicare l’obiettivo ultimo di una comunione di santi in paradiso, politeuma en ouranois , per dirla con l’Apostolo delle Genti. Il linguaggio usato dai Pontefici, tuttavia, si adatta all’una e all’altra realtà. Nella stessa enciclica citata, Pio XII parla con chiarezza di struttura organica della Chiesa, costruita sui gradi della gerarchia, sui ministeri, le professioni, gli stati, gli ordini, gli uffici. Qui riconosciamo facilmente i concetti fondamentali della dottrina sociale: l’interclassismo, la cooperazione armonica dei diversi fattori della produzione, il superamento della lotta di classe, la partecipazione alle decisioni e ai benefici dell’opera comune da parte di tutti i collaboratori. La convivenza umana, secondo la Chiesa, è perciò di sicuro una Comunità, nel significato del Toennies, a cui però deve essere accompagnato l’aggettivo organica, e questa non è una mera sottigliezza lessicale.

Se quelle fin qui ricordate costituiscono le fondamenta teologiche e filosofiche della sociologia cattolica, il suo vero atto di nascita resta la celeberrima enciclica Rerum novarum di Leone XIII, del 1891. Questa non sorge per caso né in modo estemporaneo. Da tempo operano numerose associazioni culturali, guidate da uomini di fede, che si sono date come obiettivo lo studio dei problemi sociali sorti con la rivoluzione industriale: l’urbanesimo, la proletarizzazione del vecchio ceto agrario, la soppressione di ogni precedente tutela del lavoro quali le corporazioni di arti e mestieri, la crescita esponenziale delle disuguaglianze economiche.

Fra queste ricordiamo il Gesellenverein di Colonia, i Katholigentage di Magonza, il Circolo dei Baroni Cristiani di Vienna, l’Unione di Friburgo in Svizzera, i Circoli Cattolici Operai e le Settimane Sociali in Francia. Quanto all’Italia, come dimenticare le luminose figure di Cesare Taparelli d’Azeglio e del grandissimo Giuseppe Toniolo, uno dei primi sociologi in assoluto, docente sommo all’Università di Pisa? A questi si deve la fondazione dell’Opera dei Congressi, associazione cattolica per lo studio dei fenomeni sociali, a cui aderiscono molti intellettuali e aristocratici, soprattutto toscani, come il marchese Lorenzo Bottini e il conte Cesare Sardi di Lucca, oltre al cavaliere Luigi Mochi di Pescia, sindaco della sua città.

Costoro non mancano d’inviare al Sommo Pontefice Leone XIII i risultati delle loro ricerche, con annesse le relative proposte di cambiamento e riforma. L’insieme di tali contributi fu la spinta energetica che sostenne la prima enciclica sociale della storia. Quest’ultima inizia denunciando la situazione precaria, spesso disumana degli operai, ai quali è perfino negato il tempo per partecipare alle funzioni religiose nei giorni festivi. Prosegue suggerendo una serie di provvedimenti concreti che lo Stato dovrebbe adottare a tutela dei più deboli, ma l’aspetto che maggiormente c’interessa, nell’ottica della proposta partecipativa, è il ruolo delle organizzazioni sindacali, di cui il Papa raccomanda la nascita e l’espansione. Ciò, tuttavia, ad esclusiva tutela dei legittimi diritti dei lavoratori, ma non devono diventare strumento di potere o lotta di classe, che egli condanna senza riserve:

Nella presente questione lo sconcio maggiore è questo, supporre l’una classe sociale nemica naturalmente dell’altra; quasi che i ricchi e i proletari li abbia fatti natura a battagliare con duello implacabile fra loro. Cosa tanto contraria alla ragione e alla verità, che invece è certissimo che, siccome nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento che chiamasi simmetria; così volle natura che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra, né il capitale senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose; laddove un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie” (4).

A tale esigenza di pacificazione sociale deve provvedere lo Stato, alla cui attività le differenti categorie sono chiamate a partecipare in modo paritetico:

Lo Stato è un’armoniosa unità che abbraccia del pari le infime e le alte classi. I proletari né più né meno dei ricchi sono di naturale diritto cittadini, membri veri e viventi onde si compone, mediante le famiglie, il corpo sociale: per non dire che ne sono sempre il maggior numero. Ora, essendo assurdo provvedere ad una parte di cittadini e trascurare l’altra, è stretto dovere dello Stato prendersi la dovuta cura del benessere degli operai : non facendolo si offende la giustizia che vuole reso a ciascuno il suo …..Allo scioglimento della questione operaia possono contribuire molto i capitalisti e gli operai medesimi, con istituzioni ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi e ad avvicinare ed unire le classi fra loro. Vediamo con piacere formarsi associazioni siffatte, sia di soli operai, sia miste di operai e padroni, ed è desiderabile che crescano di numero e di operosità” (5).

Un’altra pietra miliare della dottrina sociale della Chiesa è l’enciclica Quadragesimo anno, promulgata da Pio XI nel 1931, quarantesimo anniversario della Rerum novarum. I tempi sono profondamente cambiati, la questione operaia si è fatta via via meno drammatica, i rischi di rivoluzione e di gravi disordini meno incombenti. In Italia, fra l’altro, il regime fascista gode della massima popolarità fra i cattolici, a soli due anni dal Concordato, e l’illusione di una duratura, pacifica convivenza fra Trono e Altare non teme per il momento incrinature. Il documento pontificio risente di questo clima, ad esempio laddove esprime un giudizio positivo sull’esperienza corporativa in atto, pur precisando che la Chiesa è favorevole a un corporativismo democratico, in cui i dirigenti siano eletti dalla base sindacale e non nominati dal governo. Per il resto, esso conferma e sviluppa i capisaldi dottrinari enunciati da Leone XIII.

Pio XI allarga il criterio partecipativo affermando che è “del tutto falso ascrivere al solo capitale o al solo lavoro ciò che si ottiene con l’opera unita dell’uno e dell’altro, ed è affatto ingiusto che l’uno arroghi a sé quel che si fa, negando l’efficacia dell’altro. E’ necessario che le ricchezze, le quali si amplificano grazie ai progressi economici e sociali, vengano attribuite ai singoli individui ed alle classi in modo che resti salva quella comune utilità di tutti, perché si serbi il bene dell’intera società. Per questa legge di giustizia sociale non può una classe escludere l’altra dalla partecipazione agli utili” (6).

Proprio per questo raccomanda non di sostituire integralmente, bensì di temperare il contratto di lavoro salariato con quello di società, in modo che gli operai divengano “cointeressati nella proprietà o nell’amministrazione: oltre al carattere personale e individuale deve considerarsi il carattere sociale come della proprietà, anche del lavoro, massime di quello che per contratto si cede ad altri; se non esiste un corpo veramente sociale e organico, se le varie parti, le une dipendenti dalle altre, non si collegano fra loro e mutuamente non si compiono, se l’intelligenza, il capitale e il lavoro non si associano quasi a formare una cosa sola, l’umana attività non può produrre i suoi frutti, e quindi non si potrà valutare giustamente né retribuire adeguatamente, dove non si tenga conto della sua natura sociale e individuale” (7).

Le indicazioni di Papa Ratti saranno quindi rilanciate, nel nuovo contesto del dopoguerra, da Giovanni XXIII nell’immortale Mater et magistra, che possiamo a giusto titolo considerare la vera enciclica della partecipazione. Il documento esce nel 1961, settantesimo della Rerum novarum, e solleva subito un enorme interesse non soltanto da parte dei media e dell’opinione pubblica mondiali, ma anche di molti governi. Lo stesso Charles de Gaulle, presidente della repubblica francese, non farà più tardi mistero di essersi ispirato allo scritto giovanneo per concepire la sua storica proposta di riforma partecipativa, peraltro bocciata, sia pure di stretta misura, dal referendum popolare dell’aprile 1969.

Il documento di Giovanni XXIII, rispetto a quello dei suoi predecessori, presenta un approccio tecnico decisamente superiore. Egli introduce, per esempio, il termine socializzazione, inedito nella sociologia cattolica, che non ha nulla in comune con l’uso che ne fa il marxismo:

Uno degli aspetti tipici che caratterizzano la nostra epoca è la socializzazione, intesa come progressivo moltiplicarsi di rapporti nella convivenza, con varie forme di vita e di attività associate, e istituzionalizzazione giuridica. Essa è frutto ed espressione di una tendenza naturale degli uomini ad associarsi per il raggiungimento di obiettivi che superano la capacità e i mezzi di cui possono disporre i singoli individui…….La socializzazione non va però considerata come il prodotto di forze naturali operanti deterministicamente; essa è invece creazione degli uomini, esseri consapevoli, liberi e portati per natura ad operare in atteggiamento di responsabilità. Nello sviluppo delle forme organizzative della società contemporanea l’ordine si realizza sempre più con l’equilibrio tra una esigenza di autonomia ed operante collaborazione di tutti, individui e gruppi, ed una azione tempestiva di coordinamento e indirizzo da parte del potere politico” (8).

I criteri esposti dal Pontefice si ritroveranno, qualche anno dopo, negli approfonditi studi condotti in Francia dallo staff economico-accademico incaricato di predisporre le linee della riforma sociale gollista, illustrate dal politologo Marcel Loichot nel suo monumentale saggio La mutation (Tchou, Parigi 1969), ove la socializzazione è chiaramente intesa come partecipazione incrociata di un’impresa nell’altra: per esempio un’azienda industriale e i suoi clienti, ovvero i rappresentanti delle banche che la finanziano. Obiettivi difficilmente raggiungibili, si dirà, e forse un po’ utopici. Può darsi, ma l’energia che sostiene tale cambiamento è la fede nell’uomo-persona, nel libero arbitrio e nell’esercizio della sua responsabilità diretta nel luogo ove presta quotidianamente la propria opera. Quanto all’organizzazione aziendale in senso specifico, al riparto delle decisioni nella gestione e degli utili d’esercizio, il Pontefice non mostra incertezze:

Non possiamo non accennare al fatto che oggi in molte economie le imprese di medie e grandi dimensioni realizzano, non di rado, rapidi ed ingenti sviluppi produttivi tramite l’autofinanziamento. In tali casi riteniamo di poter affermare che ai lavoratori venga riconosciuto un titolo di credito nei confronti delle imprese in cui operano. Tale esigenza di giustizia può essere soddisfatta in più modi suggeriti dall’esperienza. Uno tra i più auspicabili è far sì che i lavoratori possano giungere a partecipare alla proprietà delle stesse imprese e attivamente alla loro vita. Non è possibile predeterminare i modi e i gradi di tale partecipazione, dato che le situazioni concrete variano spesso da impresa a impresa. Tuttavia il problema della presenza attiva dei lavoratori esiste sempre, sia nelle organizzazioni private che in quelle pubbliche; in ogni caso si deve tendere a che l’impresa divenga una comunità di persone nelle relazioni, nelle funzioni e nella posizione di tutti i soggetti. Una concezione umana dell’impresa deve senza dubbio salvaguardare l’autorità e la necessaria efficienza delle unità di direzione, ma non può ridurre i suoi collaboratori al rango di semplici, silenziosi esecutori, senza alcuna possibilità di far valere la loro esperienza, interamente passivi di fronte alle decisioni che dirigono la loro attività. E’ da rilevare infine che l’esercizio della responsabilità da parte dei lavoratori agli organismi produttivi, mentre risponde alle esigenze legittime insite nella natura umana, è pure in armonia con l’evolversi storico in campo economico, sociale, politico” (9).

La visione partecipativa di Papa Roncalli non si limita, però, alla co-decisione aziendale, per quanto significativa e sotto certi aspetti rivoluzionaria. Egli si rende conto che simili innovazioni resterebbero un fatto limitato e privo di conseguenze, qualora non trovassero sbocco nelle stesse istituzioni pubbliche. Il brano che segue è la prima indicazione autorevole di un modello partecipativo che s’inserisca giuridicamente nello Stato :

Non possiamo non rilevare come sia opportuno o necessario che la voce dei lavoratori abbia la possibilità di farsi sentire ed ascoltare oltre l’ambito dei singoli organismi produttivi e a tutti i livelli. La ragione è che i singoli organismi produttivi, per quanto le loro dimensioni possano essere ampie e la loro efficienza elevata ed incidente, sono vitalmente inseriti nel contesto economico-sociale delle rispettive Comunità politiche e da esso condizionati. Se non che, le scelte che maggiormente influiscono su quel contesto non sono decise da poteri pubblici o da istituzioni che operano su un piano regionale o nazionale o mondiale o di settore economico o di categoria produttiva. Di qui l’opportunità o la necessità che in quei poteri o in quelle istituzioni oltre che i portatori di capitali o di chi ne rappresenta gli interessi, siano pure presenti i lavoratori o coloro che ne rappresentano i diritti, le esigenze, le aspirazioni “ (10).

La visione sistemica e non puramente aziendale della partecipazione è ribadita da Giovanni Paolo II nell’enciclica Centesimus annus del 1991, considerata da molti il più moderno e liberale fra i documenti pontifici, in quanto recepisce e legittima il principio del profitto, purché rispettoso della dignità umana. Papa Woytjla stigmatizza unicamente quei modelli che in vista di benefici materiali opprimono e offendono la personalità del lavoratore. Nei loro confronti è giustificata la lotta contro un sistema economico come metodo che assicura l’assoluta prevalenza del capitale, del possesso degli strumenti di produzione e della terra rispetto alla soggettività del lavoro dell’uomo:

A tale sistema non si pone, come alternativo, quello socialista, che di fatto risulta essere un capitalismo di Stato, ma una società del lavoro libero, dell’impresa e della partecipazione. Essa non si oppone al mercato ma chiede che questo sia opportunamente controllato dalle forze sociali e dallo Stato, in modo da garantire la soddisfazione delle esigenze fondamentali di tutta la società. L’integrale sviluppo della persona umana nel lavoro non contraddice, ma favorisce la maggiore produttività ed efficacia del lavoro stesso, anche se ciò può indebolire aspetti di potere consolidati. L’azienda non può essere considerata soltanto come una società di capitali; essa è al tempo stesso una società di persone, di cui entrano a far parte in modo diverso e con specifiche responsabilità sia coloro che forniscono il capitale necessario per la sua attività, sia coloro che vi collaborano col proprio lavoro”.

E conclude:

La Chiesa apprezza il sistema della democrazia, nella misura in cui assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche e garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere e controllare i propri governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò risulti opportuno. Essa, pertanto, non può favorire la formazione di gruppi dirigenti ristretti, i quali per interessi particolari o per fini ideologici usurpino il potere dello Stato “ (11).

Parole dure, prive di ambiguità, che dimostrano come Giovanni Paolo II miri lontano. Nel 1991, infatti, l’offensiva delle lobby e della grande finanza globalizzata è appena agli inizi, ma al Pontefice non sfugge che per contrastare l’arbitrio di coloro che si servono dello Stato come di cosa propria, l’unica soluzione possibile è restituire la sovranità al popolo, mediante la partecipazione sia a livello d’impresa che istituzionale, lo strumento più efficace e completo di democrazia diretta. Ciò apre una discussione immensa, ripresa dal già ricordato Pier Luigi Zampetti oltre che da molti altri sociologi, politologi e giuristi dopo di lui, circa la differenza fra democrazia delegata e democrazia diretta. Essa è tuttora in pieno svolgimento, registrando accesi dibattiti fra le diverse correnti di pensiero. Quella che si è spinta più avanti, a livello di studio e ricerca, è forse la Sociocrazia olandese, la quale fornisce la visione completa di un modello organizzativo che integra entrambi gli aspetti e li sussume in una sintesi superiore.

Anche in altri paesi, fra cui l’Italia, la discussione appare oggi estremamente vivace. Molti costituzionalisti sono convinti che la semplice rappresentanza delegata, con elezioni a scadenza quinquennale, non sia più sufficiente, nelle circostanze attuali, ad assicurare la legittima sovranità popolare. Concludiamo proponendo un illuminante passo di Zampetti, a commento della Centesimus annus:

La partecipazione può avvenire in due modi. Si può partecipare alla scelta dei rappresentanti e si può, altresì, concorrere a determinare le scelte politiche in quanto tali. Se la democrazia è fondata sulla persona non basta la partecipazione alle elezioni dei rappresentanti. Si tratta di una partecipazione limitata, che non permette affatto di creare le strutture partecipative. La scelta dei rappresentanti è una condizione necessaria ma non sufficiente perché si possa parlare di democrazia piena. Limitarsi al solo esercizio del diritto di voto non basta. Appare ancor oggi valido quanto scriveva Rousseau, più di due secoli fa, nel Contratto Sociale : <il popolo inglese crede di essere libero in quanto vota. In realtà è libero solamente nel momento in cui vota, dopodiché è più schiavo di prima>” ( 12).

Comunque si pensi, la dottrina sociale della Chiesa rappresenta una voce autorevole, degna di profondo rispetto e attenta considerazione, in un dibattito dalle prospettive epocali, dall’esito del quale dipende l’avvenire nostro e della nostra civiltà”.

CARLO VIVALDI-FORTI

 

 

NOTE

 

  1. Pier Luigi Zampetti, La società partecipativa, ed. Dino, Roma 2002, p. 187.
  2. Kurt Schilling, Geschichte der sozialen Ideen , ed. Kroner, Stoccarda 1957, p. 13.
  3. Pio XII, Mystici corporis, in Tutte le encicliche dei Sommi Pontefici, ed. Dall’Oglio, Varese 1963, p.1167.
  4. Leone XIII, Rerum novarum, in Tutte…., cit., p. 440.
  5. Leone XIII, cit., p.447.
  6. Pio XI, Quadragesimo anno, in Tutte…, cit., p. 927.
  7. Pio XI, cit., p. 930.
  8. Giovanni XXIII, Mater et magistra, in Tutte….,cit., p.1587.
  9. Giovanni XXIII, cit., p.1590.
  10. Giovanni XXIII, cit., p.1594.
  11. Giovanni Paolo II, Centesimus annus, ed. Paoline, Roma 1991, pp. 49-63.
  12. Pier Luigi Zampetti, cit., p. 212.

 

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